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Come nasce il naming fra concetto e identità

Come nasce il naming fra concetto e identità
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03/08/2023

Il naming è la chiave del successo.
Se non funziona, può diventare un problema.
Parola di Francesca Cutini

Come nasce il naming fra concetto e identità

Il naming è la chiave del successo. Se non funziona, può diventare un problema. Parola di Francesca Cutini

Una cosa senza nome non si può scrivere, registrare, possedere, esortare, non ci si può fare un discorso serio, è sfuggente, indefinita e anche un po' furfante. Senza un naming non si può neanche fare un ragionamento tra sé e sé, costruirsi un'autocoscienza, figuriamoci comunicare con gli altri. 'Nomen omen' dicevano i latini.

Il naming è convenzionalmente un processo che porta alla nascita di un nome commercialmente accattivante per un prodotto, un servizio o un'idea ancora senza concretezza. È la maieutica dell'identità concettuale, prima, e visiva poi.

Il mio primo compito per le successive sei ore in agenzia, sarebbe stato: a. trovare il nome ad una start up ancora allo stato embrionale, b. pensare ad un logo, dargli una faccia che ne sintetizzasse la ragion d'essere a colpo d'occhio e c. presentare il tutto per fare colpo sul Direttore Creativo che avrebbe deciso di me e del mio futuro, in quel giorno.

I giochi di parole sono una cosa seria

Ovviamente ognuno ha il suo metodo: brief alla mano c'è chi trova il naming vincente cavalcando brainstorming senza freni in una sorta di delirio trascendentale, c'è chi approccia al problema farfugliando combinazioni di lettere e parole come nella più agguerrita partita di Scarabeo; o c'è chi si affida anima e corpo alle ricerche correlate di Google col rischio, elevato, di perdersi per strada la chiave di ricerca originaria da cui tutto parte e deve ritornare.

Personalmente, per arrivare a un naming intrigante, trovo molto utile il dizionario dei sinonimi e contrari e le mappe mentali: aiutano a trovare collegamenti originali, strade ancora non battute e nessi non necessariamente logici, ma anche etimologici, fatti di suggestioni e storie in grado di stimolare la memoria collettiva delle persone. Questo è un metodo progettuale che va bene veramente “dal cucchiaio alla città”(Ernesto N. Rogers) perché che sia un nome o un logo, il procedimento che porta un'idea a concretizzarsi risulta il medesimo.

Facciamo respirare le idee: il naming nasce così

Tutte le idee (soprattutto sul naming) hanno bisogno di decantare per un certo periodo: così le scorie, i capricci, la sovrabbondanza e l'inessenziale si depositano e quello che resta è il nucleo nudo e crudo spogliato di tutti gli orpelli che potrebbero distrarre e creare rumore nella comunicazione. È un buon momento per ossigenare il cervello, allontanarsi dalla scrivania e farsi un panino.

Se il naming non funziona, non è abbastanza creativo

Se anche dopo la “pausa di riflessione”, il naming tutto sommato è credibile e non perde di slancio, si può proseguire col design del logotipo vero e proprio. Prima del design viene sempre il contenuto, quindi tutti i ragionamenti, le mappe mentali e le analisi fatte per il naming valgono anche per la progettazione figurativa del marchio. Assicurarsi che ci sia un concetto forte a dare senso alle forme garantisce e sostiene la tenuta del lavoro sotto tutti i punti di vista, non ultimo quello estetico. Durante il processo che traduce i concetti chiave in un linguaggio universale fatto non di parole ma di forme e colori i mantra da ripetere fino alla nausea sono:

  • - un logo ben fatto non segue le mode, un logo ben fatto è eterno
  • - un logo è perfetto non quando non c'è più niente da aggiungere, ma quando non c'è più niente da togliere
  • - un logo che funziona è quello che può essere faxato, timbrato, proiettato sulla luna e disegnato sulla sabbia

Per il resto si tratta di giocare con le geometrie e le cromie che il concept del naming suggerisce. La leggibilità di un naming, qualsiasi sia il supporto e la dimensione, è ovviamente imprescindibile: un buon logo deve poter essere riconosciuto anche se per assurdo fosse stampato sul dorso di una mosca in volo.

Anche i brand hanno un'anima (ed è a colori)

Scegliere il colore per un logo non è mai scontato: considerando che una delle regole del buon design suggerisce che non siano mai più di tre, già utilizzarne più di uno comporta l'ulteriore problema del rapporto tra di essi, oltre che quello non sempre idilliaco del contrasto figura/sfondo. Dobbiamo inoltre tener conto della psicologia del colore, ovvero di tutta quella gamma di sensazioni e reminiscenze che un colore stimola nel nostro cervello anche inconsciamente. Per capirci, difficilmente un logo di un prodotto alimentare sarà nero, come altrettanto improbabile sarà vedere un rosa pastello per una banca o un'azienda automobilistica.

Mezz'ora alla consegna (keep calm and carry on)

Ridursi all'ultimo per presentare efficacemente un lavoro non è mai consigliabile, ma all'atto pratico, in particolar modo quando stai facendo una prova per un posto in agenzia, è la norma. Il tempo è sempre tiranno ed il risultato finale non può mai essere scontato o sciatto. Il rischio è di mostrare se stessi come scontati e sciatti. 

L'unica vera salvezza è che, se durante l'iter progettuale ci si è posti le giuste domande per naming e logo, il lavoro in qualche modo è già predisposto a spiegarsi e a presentarsi da solo, senza troppe parole. 

(articolo di Francesca Cutini) 

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